Progetto vincitore del Premio #cittàlaboratorio Under 35 – Orestiadi di Gibellina

testo e messa in scena Simone Corso dramaturg Jovana Malinaric
con Simone Cammarata, Carmelo Crisafulli, Paola Francesca Frasca
senza Annibale Pavone
produzione Nutrimenti Terrestri


Premessa

Il 23 Aprile del 2019, all’ospedale di Taranto arriva un ambulanza. Al suo interno vi è un uomo in evidente stato confusionale. La diagnosi è facile e immediata: astenia, ovvero l’esaurimento di qualsiasi forza vitale, fisica e psichica.
Solitamente l’astenia, però, è il sintomo di qualcos’altro, di una malattia più o meno grave che consuma le energie del corpo. Ma quell’uomo non presenta nessuna patologia specifica. È semplicemente e terribilmente astenico, come se la sua mente e il suo corpo abbiano deciso di concerto, di smettere di funzionare. Quell’uomo si chiama Antonio Cosimo Stano, ha sessantacinque anni, è stato trovato chiuso in casa dietro la porta sbarrata dall’interno e morirà qualche giorno dopo sul letto di quell’ospedale, nonostante le cure.
Antonio abitava in un piccolo paese della provincia del Sud Italia e come spesso capita in questi luoghi, insieme al nome e al cognome che ne tracciavano l’identità anagrafica, portava un soprannome che più di quelli lo qualificava agli occhi dei suoi compaesani: Il Pazzo o, ancora meglio, Il Pazzo del Villaggio del Fanciullo, dal nome dell’oratorio che stava proprio di fronte casa sua. “Pazzo” era chiamato Antonio perché da solo aveva imparato a vivere come meglio poteva, restituendo agli occhi di tutti gli altri l’immagine di un uomo dissonato, mal calibrato; e questa stonatura era tutto quello che di Antonio bastava per spiegare le sue parole, i suoi silenzi, i suoi sguardi, i suoi sorrisi, come se nient’altro potesse abitare dentro quell’uomo.

E così, alle persecuzioni di un gruppo di giovani tra i 16 e i 22 anni che del Pazzo avevano fatto il centro dei loro passatempi, Antonio aveva cercato di resistere nel solo modo che uno come lui può inventarsi: rinchiudendosi lontano da loro, nel posto in cui si sentiva al sicuro e protetto, la casa che abitava da quand’era bambino e che era rimasta, proprio come lui, sempre uguale a sé stessa, mentre il paese intorno cambiava, la gente imparava ad assomigliare a qualcuno di sconosciuto, il mondo degli altri diventava sempre più grande e il suo sempre più piccolo.

Dietro una porta chiusa

La vicenda di Antonio Stano è una tra le pagine più brutte della storia recente del nostro Paese. Perseguitato da un gruppo di giovani con vessazioni fisiche e morali perpetrate giorno per giorno, infine esausto, Antonio si è chiuso dentro casa, sfamandosi di ciò che c’era, bevendo acqua del rubinetto. La sua storia diventa ancor più terribile perché molte di quelle vessazioni erano state filmate e condivise su Whatsapp con altri ragazzi e ragazze e, forse, gran parte di quelle incursioni avevano come scopo principale proprio quello di essere filmate.
Quando le porte delle case resteranno di nuovo aperte prende forma dalla vicenda di Manduria senza tracciarne la cronaca, ma piuttosto, cercando di richiamare drammaturgicamente sulla scena le dinamiche sociali che la connotano e che hanno influito su quei giovani tanto da spingerli ad agire senza l’ombra di un rimorso e senza riuscire a empatizzare con la loro vittima.

L’arrivo dei beni di consumo, l’economia di mercato, la pubblicità, la cultura audiovisiva di massa, la riproposizione continua di forme tutte uguali sugli schermi sempre più piccoli e simbiotici, hanno lentamente modificato l’anima degli users stordendola di benessere, marginalizzandola dentro i confini del proprio ego e mettendo così l’individuo continuamente in competizione col mondo intero: “avere di più per essere migliori”.
Oggi che possiamo esercitare il potere dell’avere con un solo dispositivo tenuto in tasca, dove realtà e rappresentazione sono perfettamente mescolate insieme, chi non rimane sedotto da questo potere ne diviene, per contrappasso, vittima inconsapevole. E chi invece lo esercita, lo fa sotto effetto di quell’ubriacatura, vittima anch’egli perché incapace di immaginare un’alternativa dentro un panorama socio- culturale desolato: auto-rappresentarsi, guardare l’effetto delle proprie azioni dal di fuori, liberi (della libertà come puro arbitrio, volontà dell’io, proprietà dell’io, svincolata dal concetto di eguaglianza e fratellanza) di operare nel bene e nel male, restituisce il gusto inconscio d’avere un accesso illimitato a tutte le possibilità del reale. L’auto-rappresentazione diventa così la sola miccia che accende l’agire, l’unica spinta a tirarsi fuori dal torpore della noia sconsolata d’avere tutto ed essere, però, solo uno uguale a tutti gli altri uno, indistinguibile.
Quando le porte delle case resteranno di nuovo aperte prova a interrogarsi intorno a questa crisi d’identità culturale e agli effetti più cronici che produce sulla società contemporanea, nel ricordo sempre vivo di Antonio Stano.

Sviluppo

Il Pazzo che appare sulla scena si muove tra il tempo dell’azione drammatica e quello sospeso, a-storico, della
riflessione, dove vestendo i panni di un aedo, con gli occhi di chi ha già visto e conosciuto un prima, si fa specchio del mutamento della società:


Quando crebbi, crebbero anche le case, divennero più alte. Su un piano se ne costruiva un altro e un altro ancora. Le porte divennero più robuste, di metallo, ci passavano cose che non erano mai esistite, cose pesanti che una volta entrate, non uscivano più fuori. E così le porte si chiusero con noi dentro casa perché, senza neanche accorgercene, diventammo i guardiani di quelle cose.”


Erri, Andre e Vera, i tre giovani, altro termine dialettico della narrazione, allo stesso modo si fanno “personaggio” e specchio epico di una generazione nativa di questi anni; adolescenti che cercano di trovare il proprio spazio in un mondo, quello contemporaneo, ingombro di baccano comunicativo dove l’isterilimento socio-culturale verdeggia in un dedalo di valori che si infragiliscono.
La drammaturgia si sviluppa a metà tra la matrice epica e il teatro documentario; pertanto la messa in scena si pone l’obiettivo di trovare una modalità di rappresentazione in cui l’accaduto non viene riproposto secondo una mera logica di racconto, ma piuttosto come atto della ripetizione dello stesso, indagato insieme al pubblico che sera dopo sera ne sarà con-partecipe in sala. Per perseguire questo fine, da un lato manometteremo gli elementi narrativi che costituiscono la quotidiana fruizione social: immagine in movimento, suono e testo emergono dagli schermi, sezionati e ricomposti col fine di risignificarli in uno spazio, quello scenico, che diventa sia luogo della rappresentazione che di ricerca e approfondimento. Dall’altro, dentro questo paesaggio multimediale, la stessa rappresentazione sfugge alle norme di unità di spazio, tempo e luogo procedendo a segmenti: l’accaduto si ripresenta e ripropone (come un post virale) sempre lo stesso, ma filtrato, rappresentato e indagato attraverso vari punti di vista (che siano dei personaggi del racconto o degli stessi artisti coinvolti nella sua traduzione scenica).
Nel mondo degli spett-autori, in cui continuamente tutti guardiamo e produciamo contenuti, rappresentiamo e auto- rappresentiamo la nostra vita, la regia sceglie di mettere l’accento su questo cambiamento culturale della nostra epoca imbastendo un dialogo onesto tra scena e platea che tenta di far diventare l’evento teatrale un’occasione assembleare di indagine e confronto oltre che di spettacolo. Per tutte queste ragioni lo spazio scenico si presenta sgombro di suppellettili scenografiche, ogni oggetto richiamato sulla scena è un oggetto agito: niente appare che sia decorativo o univocamente simbolico.


TOURNÉE

🔘24 LUGLIO 2022 | GIBELLINA (TP) | ORESTIADI, BAGLIO DI STEFANO
🔘25 LUGLIO 2022 | PATTI (ME) | TINDARI FESTIVAL, EX CONVENTO DI S.FRANCESCO


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