scritto e interpretato da Alessia Berardi
al pianoforte Daniel Bacalov
testi di Alessia Barardi, Fabrizio De Andrè, Alvaro Mutis


Note

Una donna in scena racconta e canta come fossero un’unica cosa: il canto e le parole. La musica accanto a lei e accanto al pubblico. Gli spettatori seduti con lei. L’atmosfera e il gioco del teatro cercano di far dimenticare la sala, e portano il pubblico in una piazza, in un caffè. E’ questo il senso della storia, della canzone: canzone popolare, storia popolare. La canzone di De Andrè e la sua storia. Fino a fondere e confondere le due dimensioni, senza soluzione di continuità e di spazio, come in una serata di festa, dove la canzone serve a raccontare e le parole a cantare un’emozione. Nella donna in scena avviene questo, passano i personaggi, i narratori e sono essi stessi a cantare e a portarsi il pubblico con loro, a farsi aiutare con la loro partecipazione informale verso una scena dove non ci sono più gli spettatori…

“…questa canzone è nata da una specie di dramma familiare applicato ad una ragazza che a sedici anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro da un delinquente. Un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte.”
F. De Andrè

Addolcirle la morte… la morte, tutto ciò che si dice, tutto ciò che si vuole ricamare intorno al tema non cessa di essere un esercizio sterile, forse avrebbe più senso tacere e aspettare.
L’uomo non può, non deve tacere, deve dare un nome alle cose emettere un suono per le cose. Solo così può addolcire la morte.
Con un suono che diventa parola che diventa canto che diventa poesia.
Una voce dimenticata, impercettibile ma struggente come il canto delle balene in fondo al mare.

“Le canzoni le ho scritte così, come mi hanno aggredito, per incontenibile affiorare della memoria. Di solito l’attualità che mi aveva colpito era passata attraverso un processo di metabolizzazione: magari bastavano due giorni, altre volte qualche mese. Una memoria che mi arrivava già distorta quindi, proprio come la volevo, altrimenti mi sarebbe servita per qualche articolo di cronaca.”
F. De Andrè

Così ho cominciato a rovistare nella memoria, come a cercare nella mia testa questo personaggio che era vissuto da qualche parte, e ad applicarlo alla memoria di De Andrè, così come la racconta nell’unico suo romanzo: Un destino ridicolo.
Ho inserito anche un frammento di Alvaro Mutis, che De Andrè considerava un grande maestro. In quella frase c’è un’idea sul senso della vita e sul ruolo fondamentale del destino nell’uomo che ritroviamo anche nel testo di De Andrè. Cosi è nata una storia ibrida, composta da frammenti di ricordi appartenenti a persone distinte, unite da canzoni che parlano di altre storie.
Una storia raccontata con leggerezza e ironia che parla del confronto che questi personaggi hanno con il proprio destino.
È stato come cercare di rimettere insieme le foglie di un albero e ricomporre un ramo ormai spoglio da tempo; dargli un nome per dargli un identità.
Un nome che per uno strano gioco del destino non è mai stato ricordato da nessuno. Un nome, Innocenza, dimenticato e reso pietra immobile, non umano.
Perché cosa, se non la memoria, ci rende umani e ci fa sentire dentro la storia.
Che non è la storia dei grandi nomi, dei libri che si studiano a scuola, ma è la storia di persone che vivono la loro vita a metà, tra una panchina e una metro, tra un marciapiede e una stazione.
A quei personaggi che vivono una vita parallela alla nostra, che ci passano accanto come ombre e che noi forse non vogliamo riconoscere come le nostre ombre. Come chiamarli se non conosciamo i loro nomi…
Gente di sotto

Sono stato definito “il poeta dei giovani”, ma non sono d’accordo. Un conto è la canzone, un conto la poesia. Ho cominciato a scrivere canzoni per esprimere qualcosa, ma anche per divertire e per divertirmi.”
F. De Andrè

Alessia Berardi


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